Gianfranco Franchi intervista la giornalista Antonella Ricciardi”

FRANCHI: "Antonella, quando nascono il tuo interesse e la tua dedizione alla questione palestinese? Cos'è che t'ha più commossa e più coinvolta nella tragedia del conflitto israelo-palestinese? Cosa t'ha più offesa?"
RICCIARDI: "Un interesse particolare per il popolo palestinese è nato in me all'età di 13 anni, nel 1992, in seguito alla lettura di un articolo-intervista, su un giornale ormai vecchio, allora, di quasi un anno (che avevo conservato perchè ero interessata fondamentalmente a numerosi altri servizi in esso contenuti, soprattutto di natura storica). Il servizio cui faccio riferimento riguardava la storia di un giovane palestinese, condannato per terrorismo in Italia in seguito ad un reato avvenuto quando era ancora minorenne: si trattava di Bassam Al Ashker, il quale, all'età di 17 anni, era stato uno dei responsabili del sequestro della nave italiana Achille Lauro, nel 1985. Quello che mi ha colpita è stata la circostanza che fossero vere sia la considerazione che il sequestro della nave fosse stato un atto sbagliato, esecrabile, sia che in questo ragazzo fossero presenti reali elementi di abnegazione per la causa del suo popolo, di eroismo, addirittura, nell'essere stato pronto a morire per amore di altri (Bassam, avevo del resto saputo in seguito, aveva già lasciato una lettera d'addio alla sua famiglia): il progetto originario di quei fedayn (combattenti) palestinesi non era infatti quello di sequestrare dei civili, ma di usare quel transatlantico in quanto mezzo di trasporto per raggiungere un porto israeliano e compiere lì un'azione di guerriglia contro dei paracadutisti israeliani… contro, quindi, un obiettivo militare, e con il rischio molto alto di essere poi uccisi. Sentitisi però scoperti da un cameriere, che sospettavano avesse visto che avessero con loro delle armi, quei palestinesi presero possesso dell'Achille Lauro. Ora, tornando più specificamente all'articolo, questo aveva a volte un tono un po' vicino al'ironia, ad esempio definendo Bassam "maldestro terrorista palestinese", dato che questi si era, appunto, sentito scoperto da un lavoratore della nave, e così via; nello stesso tempo il testo dell'articolo, pur essendo stato scritto dal giornalista del caso, Claudio Bernieri di "L'Europeo", in modo interessante, che riusciva ad attirare l'attenzione, (e pur sottolineando giustamente la solitudine prevalente per Bassam, nonostante diverse persone lo avessero aiutato e lui le avesse apprezzate) aveva probabilmente un tono un po' provinciale, riducendo, in modo in qualche modo unilaterale, la questione di Bassam, che aveva da poco ottenuto la libertà vigilata, ad una vicenda soprattutto italiana, nel quadro di un sistema giudiziario, quello del nostro Paese, che l'articolista tendeva a guardare con una certa criticità e diffidenza, considerandolo esplicitamente troppo "lassista" con chi fosse stato condannato; tanto per fare solo un esempio tra i diversi possibili, riporto che era chiaramente ironico il titolo stesso del servizio, che suonava così "Sequestrò l'Achille Lauro? Liberiamolo subito"… Io credo, invece, che quella storia andasse molto oltre la cornice italiana nella quale in quel momento era stata confinata, e che dallo stesso scritto emergesse, nonostante quella impostazione, la verità su un giovane che, pur avendo sicuramente sbagliato nell'essersi reso responsabile del reato per cui era stato condannato (cosa che Bassam stesso aveva ammesso, pur non essendo divenuto un "pentito giudiziario" nel senso di delatore), era però anche una persona che, nata profuga e in esilio, si era mossa per degli ideali alti… Si trattava, cioè, di un uomo con una propria sensibilità, che scriveva poesie ed era gentile con tutti quelli che incontrasse… insomma, Bassam incarnava, in ogni modo, una realtà da non distruggere, per cui, secondo me, era stato giusto non solo l'averlo condannato, ma anche l'averlo aiutato… Per questi motivi, mi sono chiesta che cosa avesse potuto portare un giovane così a vivere una tale disperazione che lo aveva condotto a rendersi responsabile dell'atto di terrorismo per il quale era stato condannato: questi interrogativi mi avevano, così, spinta ad interessarmi della Palestina, cosa che non si è dimostrata una "curiosità" momentanea, ma è stata, invece, un interesse profondo che è, naturalmente, tuttora vivo in me. Per quanto riguarda, invece, quello che più mi abbia colpita ed offesa riguardo la tragedia che hanno subito i palestinesi, non te ne posso fare in questa sede un quadro esauriente, perchè ci vorrebbe molto più spazio: rispondere dettagliatamente alla tua domanda significherebbe fare una specie di riassunto del libro… per questo, ti esprimo solo due delle tantissime circostanze che mi hanno intensamente toccata in questa vicenda: ho trovato del tutto ingiusto che la Palestina storica (che comprende l'attuale Israele, la Cisgiordania inclusa Gerusalemme Est, la Striscia di Gaza ed una piccola parte di Golan, dato che il resto è siriano), che era abitata a larga maggioranza dai palestinesi, per lo più musulmani, ma anche cristiani, sia stata non solo brutalmente colonizzata, ma addirittura trasformata in una colonia di popolamento. Io credo che il colonialismo di popolamento sia il peggiore di tutti, perchè con esso si cerca di sostituire una popolazione con un'altra, sfigurando i connotati stessi di un territorio. Il colonialismo di popolamento è quello che è stato applicato nel Nord-America ai danni dei pellerossa, in Australia ai danni degli aborigeni australiani, ecc…, con le differenza, però che, pur senza nulla togliere all'esecrazione dei crimini contro tali popoli, in questi casi si trattava di vastissimi territori, in proporzione molto meno popolati della Palestina, che aveva, invece, un'alta densità di popolazione autoctona, ed era molto più piccola. Un altro dato di fatto che mi ha profondamente colpita è stata la prassi israeliana di attuare sproporzionate rappresaglie, che il più delle volte colpiscono i civili: un esempio recentissimo e particolarmente tragico di ciò si è avuto tra il dicembre del 2008 ed il gennaio del 2009 quando, avendo diversi lanci di missili artigianali da parte di Hamas provocato meno di dieci morti ebrei (poichè  diversi dei morti  dovuti a tali atti erano stati, per errore, proprio dei palestinesi residenti in Israele, e non, appunto, degli ebrei), l'esercito ebraico ha attuato  un vero e proprio sterminio contro i palestinesi  della Striscia  di Gaza, uccidendone 1342, tra i quali  numerosissimi civili (904),  oltre 300 dei quali bambini…  Questo  orrore  mi ricorda quanto commentò un ministro finlandese a proposito di un'altra  sproporzionata rappresaglia  ebraico-israeliana contro un altro popolo prevalentemente arabo, cioè quello libanese:  nell'estate del 2006, infatti,  l'esercito israeliano uccise oltre 1000 libanesi, anche in questo caso soprattutto  civili, mentre i morti in Israele erano stati circa 200  (molti dei quali, anche allora, furono in realtà non ebrei ma palestinesi, dato che  i centri arabi non vengono forniti  dalle autorità israeliane dei rifugi antiaerei). Erkki Tuomioja, ministro degli esteri finlandese, infatti, aveva fatto la seguente dichiarazione:"Il vecchio principio occhio per occhio, aggiornato nella versione venti occhi per occhio, non può servire"… nel caso della Striscia palestinese, invece, aggiungo io, si è arrivati alla proporzione (sproporzionata) di oltre 100 occhi ad uno…"
FRANCHI: "Genesi e struttura dell'opera: raccontaci quando e come è nata l'idea; chi senti di ringraziare per sostegno, supporto e condivisione; chi vorresti leggesse il tuo libro, e perché. Soprattutto: raccontaci come hai studiato e selezionato le fonti. Abbiamo bisogno di una guida."
RICCIARDI:  "L'idea del libro è nata dopo che avevo già dedicato, in quanto giornalista, diversi e dettagliati articoli alla causa palestinese. Inoltre, ho studiato questo argomento pure per la mia tesi di Laurea: tale esperienza mi ha insegnato a curare ancora di più l'indicazione delle fonti, che pure nei pezzi giornalistici non mancavano, ma che venivano segnalate in maniera meno organica e dettagliata. Il libro ha proprio la sua struttura portante in tutta una serie soprattutto di fonti, soprattutto israelo-sioniste, ma anche italiane ed internazionali, riportate senza distinzioni di colore politico, che documentano le espulsioni, le discriminazioni e le stragi ai danni dei palestinesi. In particolare, a proposito delle fonti ebraiche, posso dire che alcune di queste sono di denuncia di tali crimini, soprattutto nell'ambito di un nuovo filone più obiettivo di storiografia israeliana, detto "revisionista", ma parecchie di più sono di natura addirittura rivendicativa nei confronti di tali efferatezze, nel senso che gli autori di tali misfatti li ammettevano senza giri di parole, in un certo senso vantandosene. Ti faccio un solo esempio a questo proposito, ma nell'opera ce ne sono tanti, tanti altri…ecco questa dichiarazione del leader ebreo David Ben-Gurion, nel maggio 1948, agli ufficiali dello Stato Maggiore: "Dobbiamo usare il terrore, l'assassinio, l'intimidazione, la confisca delle terre e l'eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba"(da: Ben-Gurion, A Biography, di Michael Ben-Zohar, Delacorte, New York 1978). "Palestina-una terra troppo promessa" ha una determinata "architettura", per una parte importante, anche grazie alle opere di altri autori che, in precedenza, hanno attuato analisi di spessore sulla questione: a mia volta, io ho studiato i loro lavori ed ho "interiorizzato" e "personalizzato" quanto, a mio parere, ci fosse di maggior valore e pregio nei loro testi, nei loro interventi… Grazie a diversi studi precedenti, quindi, ho potuto sviluppare meglio questo mio lavoro: di ciò rendo apertamente conto nel testo, dato che in quella sede cito dettagliatamente le fonti; credo che questa circostanza faccia sì che il mio stesso libro sia un'opera migliore, perchè la reperibilità delle fonti, oltre che la loro qualità, è una caratteristica molto importante per quella che, in senso ampio, è la scientificità di un testo, anche di natura storica. Nel mio lavoro sono stata, inoltre, incoraggiata da numerose persone amiche e lettori che si ponevano in maniera amichevole, il che, dal punto di vista umano e professionale, è stato per me un riconoscimento molto positivo e significativo. Rispondendoti, invece, su coloro i quali vorrei che leggessero questo libro, ti dico che considero la sua lettura auspicabile, in generale, per quelli che credano nella giustizia, che non s'interessino solo del proprio "tranquillo" orticello, e che non coltivino quei pregiudizi che fanno chiudere gli occhi e le orecchie anche di fronte all'evidenza di determinati accadimenti e al loro significato."
FRANCHI: "Nella prefazione, Roch dice: “Oggi nessuno ricorda le responsabilità della Gran Bretagna, nessuno ricorda che nel 1945 i paesi arabi più ricchi erano la Palestina e l'Egitto con riserve per 150 milioni di sterline oro, accumulate grazie ad esportazioni agricole e industriali. Pochi sanno che industrie meccaniche, fonderie, fattorie modello, ospedali (…) erano stati creati anche da emigranti cristiani tedeschi e russi (…) hanno perso tutto anche loro con la fondazione dello Stato d'Israele, senza alcuna forma di indennizzo”. Ti prego di commentare e di glossare questo passo."
 
RICCIARDI: "Riguardo questo estratto da Gilberto Roch, che, mi fa piacere ricordarlo, è un autorevole esponente della comunità palestinese in Italia, ed appartiene alla minoranza cristiana del suo popolo, posso aggiungere che la società palestinese, nella prima parte del Novecento, era una delle più fiorenti ed evolute del Mediterraneo meridionale, ospitale verso gli europei e caratterizzata da densi scambi culturali con le più diverse parti d'Europa: a Nazareth, ad esempio, esisteva un'importante scuola di lingua e cultura russa, e così via… Con l'affermarsi dello Stato d'Israele, è diventata prassi, purtroppo, una politica di espropriazione ed espulsione ai danni dei non ebrei, arabi e non arabi, palestinesi e non palestinesi che fossero, anche se nella stessa Europa, spesso, ci sono remore nell'affermarlo. A proposito, invece, delle responsabilità britanniche, si dovrebbe aprire proprio un capitolo a parte: ad esempio, Churchill, nel 1921 (un anno dopo la prima rivolta palestinese), aveva respinto la proposta di un Parlamento palestinese e si era rifiutato di bloccare l'immigrazione sionista: anche il fatto che il Gran Muftì (la più alta autorità musulmana della Palestina) avesse, nel 1936, capeggiato il più lungo sciopero del mondo, 174 giorni, non aveva scosso Churchill. Tra il 1936 ed il 1939 i palestinesi dettero vita a numerosi moti, per l'indipendenza dall'Inghilterra e contro l'invasione sionista (contro la quale già c’erano stati scontri di rilievo negli anni '20). Così, dal 1936 al 1939 morirono sotto il piombo soprattutto dei sionisti, ma anche degli inglesi, circa 11.000 palestinesi, oltre 100  furono condannati a morte, circa 3000 furono imprigionati. Uno dei motivi del filosionismo della politica inglese va indicato nella presenza di Herbert Samuel, israelita di visioni sioniste, all'Alto Commissariato dell'Impero coloniale inglese.  Fu a causa di queste già pesanti responsabilità che l'Inghilterra si astenne dal voto su una possibile spartizione della Palestina tra  gli arabi (all'epoca ampiamente  maggioritari, che la rifiutavano) e gli ebrei  (a quel tempo minoranza, favorevoli, appunto, allo smembramento del territorio palestinese): gli inglesi, infatti, non volevano  rendersi  ancora più invisi al mondo arabo…"  
FRANCHI: "Nakba, la catastrofe: conflitto del 1948. I sionisti cacciarono via dalle loro case circa 900mila palestinesi, in 530 località diverse, 418 parzialmente o completamente distrutte. Ti prego di raccontarci per bene cosa accadde, come fossimo del tutto estranei alla vicenda. Aiutaci a capire cosa ha significato tutto questo." 
 
RICCIARDI:  "La Nakba (in arabo, appunto: catastrofe) del 1948-'49 purtroppo merita realmente il suo nome per i palestinesi. Per contestualizzarla, bisogna tenere presente che la vicenda si svolse in un periodo che va dalla spartizione della Palestina, decisa il 29 novembre 1947 (nonostante tale deliberazione avesse, per l’ONU, valore solo consultivo e non esecutivo, ed ottenuta con scandalose pressioni e ricatti americani verso numerosi Paesi), alla proclamazione dello Stato d'Israele, il 14 maggio 1948, al cessate il fuoco, del 1949. Dopo l'attacco di Paesi arabi vicini contro Israele, si vide, infatti, lo svolgersi di due guerre in una: il conflitto divenne a tutto campo con l'inizio di una guerra aperta tra palestinesi ed ebrei, e continuò con l'attacco di Transgiordania (oggi denominata Giordania), Siria, Egitto, Libano, oltre ad alcuni contingenti irakeni e sauditi, contro l'appena proclamato Stato d'Israele.  Su tale sfondo, costellato da episodi terroristici attuati da bande ebraiche  soprattutto contro civili palestinesi,  i sionisti espulsero dalle loro case, appunto, circa 900.000 palestinesi, cacciati da 530 località, 418 delle quali furono distrutte, per lo più completamente. I profughi palestinesi si diressero in parte verso altre parti non occupate della Palestina, in parte verso nazioni arabe vicine: soprattutto in Transgiordania, Libano, Siria ed Egitto. A tali esuli e ai loro discendenti, in spregio al diritto internazionale, viene tuttora impedito il ritorno. Gli eserciti arabi furono invece sconfitti, con grande stupore dell'opinione pubblica internazionale: in realtà, le forze armate ebraiche erano superiori a quelle degli Stati arabi attaccanti, già prima della guerra, a causa del sostegno americano, come ammesso da tempo anche da storici israeliani. In particolare, si trattava di 60.000 ebrei contro 20.000 arabi. A questo proposito, sono significative le parole del docente universitario ebreo Yeshayahn Leibowitz (della Hebrew University, già curatore dell’Encyclopedia Hebraica): "La forza del pugno ebraico deriva dal guanto d'acciaio americano che lo ricopre e dai dollari che lo imbottiscono". Le forze armate israeliane, che avrebbero dovuto avere, stando al piano di spartizione, poco più della metà della Palestina, ne occuparono il 77%, annettendosi porzioni della costa mediterranea, della Galilea e del deserto del Neghev, sulle quali la sovranità sarebbe dovuta spettare agli arabi. Agli eserciti arabi rimasero solo tre porzioni della Palestina: la Striscia di Gaza, territorio costiero sul Mediterraneo occupato dal vicino Egitto, la Cisgiordania, territorio ad ovest del fiume Giordano, che fu occupato dalla Transgiordania di re Abdallah, più una piccolissima sezione di Golan palestinese: il Golan è, lo accennavo, essenzialmente siriano, ma una piccola parte, affacciata sul lago di Tiberiade, è palestinese (nel 1967 furono occupate entrambe). Tornando agli atti terroristici ebraico-sionisti, ricordo qui alcuni di essi: gruppi terroristici ebraici si evidenziarono gettando bombe contro mercati arabi e nell'attacco contro soldati inglesi, alcuni dei quali furono addirittura strangolati con corde di pianoforte. Il 16 settembre 1948, il mediatore delle Nazioni Unite, lo svedese conte Folke Bernadotte, denunciò le violenze sioniste contro i palestinesi, ed il giorno seguente egli fu assassinato dagli israeliani col suo assistente francese, il colonnello Serot; i loro assassini, Yehoshua Cohen e Nathan Friedman-Yellin, entrarono, in seguito, nel governo israeliano, senza mai essere puniti. L'episodio più famoso, ed uno dei più spregevoli, fu però il massacro contro il villaggio palestinese di Deir Yassin, ad Ovest di Gerusalemme, il 9 aprile 1948: l'Irgun (i cui leaders politici erano Menahem Begin ed Yitzhak Shamir, futuri primi ministri israeliani), attaccò il villaggio mentre le persone più giovani e forti erano assenti, intente al lavoro agricolo dei campi, e lo devastò, uccidendo tutti gli abitanti che riuscì a rastrellare. Gli abitanti palestinesi uccisi furono 254, soprattutto donne e bambini;  si verificarono anche stupri ed atti di violenza ancora più raccapriccianti: 25 donne incinte vennero massacrate a pugnalate, assieme, chiaramente, alle piccole creature che avevano nel grembo… I corpi dei morti vennero gettati in un pozzo, mentre diversi superstiti furono trasportati su autocarri scoperti per le vie di Gerusalemme Ovest, in una sorta di "trionfo", prima di essere scaricati nella parte orientale della città. Diversi prigionieri, poi, furono uccisi sommariamente. Gli attaccanti ebrei ebbero invece cinque morti e trenta feriti, mentre lo stesso comandante dello Shai di Gerusalemme, Levy, dichiarò: “La conquista del villaggio è stata compiuta con estrema spietatezza”. Il massacro di Deir Yassin giunse particolarmente inaspettato, dato che nel primo mese di guerra gli abitanti di questa località avevano avuto relazioni abbastanza buone con i vicini ebrei dei quartieri occidentali di Gerusalemme. Inoltre, avevano dissuaso i miliziani arabi dall’attaccare la colonia ebraica di Giv'at Shaul, e si erano rifiutati di ospitare nuclei di guerriglieri loro connazionali, sperando in una soluzione pacifica del conflitto. Oltretutto, non è neppure certo che forze armate arabe si nascondessero nel villaggio. Fondamentalmente, questa ripugnante aggressione fu utilizzata per spingere la popolazione palestinese a fuggire terrorizzata. Begin e Shamir, infatti, anche in seguito non disapprovarono l'episodio, ed in particolare il primo affermò: “Senza Deir Yassin non ci sarebbe stato Israele”. Un altro grave massacro si verificò contro il villaggio palestinese di Tantura, vicino ad Haifa: a Tantura i sionisti assassinarono circa 200 persone. Il massacro più grave di quel periodo contro palestinesi ad opera di sionisti fu però contro il villaggio palestinese di Dawayama. Se dovessi entrare ancora di più nei particolari di questo "dossier di sangue" mi dilungherei troppo per questa occasione, ma desidero aggiungere almeno diversi altri passaggi: la Cisgiordania comprendeva anche la porzione orientale di Gerusalemme, e secondo il piano di spartizione, Gerusalemme ed i suoi dintorni sarebbero dovuti essere internazionalizzati; Gerusalemme ovest, che era andata agli israeliani, aveva però un 70% di proprietà appartenenti a palestinesi. A questo punto, può essere interessante chiedersi perchè i palestinesi non proclamarono allora il loro Stato almeno in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, dato che erano almeno in mani arabe… A questa domanda si può rispondere che in parte ciò fu dovuto al fatto che il governo egiziano ma soprattutto quello transgiordano vollero mantenere il controllo di quei territori coi loro eserciti, ma in parte, anche, si può dedurre, dal fatto che gli stessi palestinesi in quel periodo non avessero intenzione di proclamare uno Stato su una parte così ridotta della Patria: per l'epoca, questo è sicuramente comprensibile. Addirittura, nel 1950, la Transgiordania di re Abdallah (distintosi per essere stato fin troppo disponibile a compromessi con i sionisti), procedette all'annessione della Cisgiordania palestinese: così, dall'unione di Transgiordania e Cisgiordania, il nome del territorio fu modificato in Giordania. Anche i "fratelli arabi", quindi, non ebbero la giusta considerazione delle aspirazioni nazionali palestinesi: mi riferisco, però, a determinati capi di governo, non alle popolazioni in generale, invece molto solidali. L'annessione non fu riconosciuta a livello internazionale (tranne che da Pakistan ed Inghilterra: troppo poco per essere valida), e soprattutto vi si opposero i palestinesi, uno dei quali proprio per questo, nel 1951, assassinò Abdallah a Gerusalemme (nel 1988, però, re Hussein di Giordania rinunciò a tutta la Cisgiordania, Gerusalemme compresa, lasciandola ai palestinesi; all'antica Transgiordania è però rimasto il nome di Giordania, pur non essendovi più inclusa la Cisgiordania palestinese: di nazionalità giordana sono normalmente considerato solo i transgiordani, quindi). Intanto gli israeliani, contravvenendo alle leggi internazionali, impedirono il ritorno dei profughi palestinesi, tramite la "Legge del proprietario assente", con la quale chi non fosse stato nella sua proprietà al momento della proclamazione d'Israele, non poteva rientrare nel Paese, nonostante i palestinesi avessero con sè i propri documenti. Un altro modo per tenere lontani i profughi palestinesi fu la falsa notizia di epidemie nei territori da loro abbandonati, diffusa dai sionisti, come rivelato con l'apertura degli archivi della C. I. A. di Princeton."
FRANCHI: "Nel capitolo tredicesimo, indaghi la natura della democrazia dello Stato d'Israele. Spiegaci cosa è e cosa non è democratico in Israele, e perché dovremmo tutti essere sensibilizzati all'argomento."
RICCIARDI: "Spesso Israele è stato definito quale Paese democratico, libero. Per prima cosa bisogna vedere cosa s'intenda per democrazia. Spesso, purtroppo, si definisce democrazia il semplice arbitrio della maggioranza, o poco più. Naturalmente questo concetto di democrazia è inaccettabile. Se si applicasse, infatti, ad una maggioranza di degenerati, ad esempio, si potrebbero far passare norme a favore della pedofilia. Di solito, però, le cose non sono così chiare a molti. Spesso si assiste piuttosto all'azione di Stati che, pur avendo Costituzioni ed altri strumenti volti a non sconfinare nel semplice arbitrio, che diventa poi dittatura della maggioranza, invece sono democratici solo con quelli che considerano gli "eletti". Questo ricorda il caso degli Stati Uniti d'America, che hanno spesso attuato un regime pseudo-democratico, cioè di democraticità formale, svuotata e non sostanziale, dato che cercano di imporsi, in nome della democrazia, in modo tutt'altro che democratico. Oltretutto, non hanno l'autorità morale per farlo, avendo un passato ed un presente non esemplari: hanno, ad esempio, causato tre milioni di morti al Vietnam, tanto per citare solo uno dei tantissimi casi possibili. A mio avviso, devono essere i popoli stessi a cambiare certe situazioni, solo se davvero lo vogliono, cosa non impossibile, ricordando il caso degli afghani, aiutati solo indirettamente da altri Stati contro i sovietici. Tornando al discorso d'Israele, c'è da ricordare che non ha una Costituzione. La democrazia non può ridursi a meccanismo elettorale. Israele non può essere definito democrazia, perchè non si può essere democratici solo con una parte degli abitanti. Ad esempio un autore critico nei confronti dello Stato ebraico, Fabio Beltrame, asserisce: “Israele è uno Stato democratico, anzi è l'unico Stato effettivamente democratico della regione. Lo è però solo ed esclusivamente per i cittadini ebrei”. Anche se i palestinesi dentro Israele hanno formalmente diritto di voto, sono cittadini di serie B, ma non è certo questo l'unico problema. Il diritto di voto, per quanto importante, non è assolutamente l'unica cosa. Quando si legalizzano gli assassinii e la tortura, entrambe cose avvenute in Israele, non ci si può legittimamente definire democratici, perchè il diritto alla vita ed alla sicurezza vengono ancora prima del diritto di voto. Da morti non si vota. La democrazia non deve essere puro arbitrio della maggioranza: in quel caso lì l'aperta dittatura ha almeno il vantaggio di non essere ipocrita e di non rendere tanti suoi cittadini corresponsabili dei suoi crimini. Per quanto sia nella natura delle cose umane il non potere raggiungere la perfezione assoluta, e ci possano essere diversi gradi di democraticità, sicuramente quando vengono elevati a sistema tortura e omicidi di esponenti politici avversari, il limite è stato passato, e non si può più parlare di democrazia. Inoltre, se si applicasse una vera democrazia, permettendo il ritorno dei profughi palestinesi dalle terre dalle quali furono cacciati (in gran parte, oggi comprese in Israele), la maggioranza ebraica (costruita, è evidente, con la pulizia etnica) verrebbe meno da subito, per cui, democraticamente e non con una guerra, gli abitanti di quel Paese potrebbero chiamarlo Palestina, nome col quale, geograficamente e storicamente, è tuttora possibile definire quelle contrade di questo territorio, che una politica colonialista ed imperialista ha invece diviso."
FRANCHI: "Sei giornalista. Ti domando: cosa va e cosa non va nell'informazione sulla questione palestinese, nella carta stampata e nell'informazione radiotelevisiva? Ti sembra che l'informazione sia condizionata da interessi partitici, economici o da pregiudizi ideologici? Racconta."
 
RICCIARDI: "Della Palestina si parla molto sui media, ma spesso in modo molto carente quanto a informazioni essenziali. Sicuramente i condizionamenti di cui accenni esistono. Del resto, l'Italia è stata classificata, in più occasioni, a livello internazionale, un Paese solo "semi-libero" a livello informativo: questo nonostante tanta parte dell'informazione di Stato se la suoni e se la canti da sola, autocelebrandosi come se fosse tra le migliori. Non di rado, inoltre, i giornali particolarmente indipendenti ed anticonformisti non vengono inseriti nelle rassegne stampa televisive, pur avendo all'attivo, a volte, un numero di copie vendute maggiore di altri invece lì presenti. In particolare, quando si parla della Palestina sui mass media s'ignorano, di solito, una serie di dati fondamentali che chiariscono le regioni di questo conflitto… te ne elenco alcuni esempi, dato che, naturalmente, una profonda disamina degli avvenimenti, prossimi e meno recenti, metterebbe inevitabilmente in luce l'illegittimità storica dell'occupazione della Palestina. Un argomento spesso usato per tale (voluta) rimozione è dato dalla considerazione che furono gli arabi a rifiutare la spartizione della Palestina, sancita dall'O.N.U. nel 1947 e realizzatasi nel 1948, con la creazione dello Stato d'Israele. Si affermava spesso, inoltre, che i palestinesi fossero sempre stati una parte indistinta del mondo arabo, senza sentire l'esigenza di un proprio Stato, salvo poi avvertirla per puro spirito di contrapposizione ai coloni ebrei sionisti. Queste obiezioni tuttavia ignorano che la Palestina avesse già una sua identità geopolitica al tempo dell'Impero Ottomano, mentre altre identità erano ancora in formazione: ad esempio il Libano era diviso in varie regioni a sè stanti, tra cui il Monte Libano, la zona a maggioranza drusa dello Chouf, ecc…. Inoltre, seguendo una filosofia affermativa, non rinunciataria, sono convinta che sia da evidenziare la giustezza del sostegno al principio dell'autodeterminazione dei popoli, in modo tale che ogni popolazione possa liberamente scegliere, senza subire imposizioni colonialistiche, se considerarsi parte integrante di una comunità nazionale più vasta e composita, o se decidere di essere una nazionalità indipendente, a sè stante. Particolare attenzione, non a caso, non viene riservata alla constatazione che gli ebrei originari della Palestina fossero solo il 10% della popolazione in epoca ottomana, saliti poi al 30% per l'immigrazione sionista, spesso illegale, all'epoca della spartizione della Palestina, che risulta chiaro, a questo punto, essere stata un crimine, ottenuta inoltre con scandalose pressioni americane, favorite da interessi economici e dall'aberrazione "cristiano-sionista" (secondo molti, in realtà di tipo anticristiano): si tratta, cioè, di una  lettura a mio parere distorta  delle Scritture, che porta  a leggerle più alla luce del Vecchio che del Nuovo Testamento, considerando  ancora validi principi, invece, confutati dai Vangeli, quali quelli della vendetta spietata e sproporzionata, di un  popolo eletto superiore agli altri ed altri simili. Inoltre, a volte si ricorda che i coloni ebrei, al momento della fondazione d'Israele, avevano comprato delle terre in Palestina…non chiarendo però che le avevano sì comprate, ma che queste erano solo il 6% del totale, il che vuol dire il 94% era in mano palestinese…a parte il fatto che un principio basilare del diritto fa sì che avere la proprietà su un territorio non voglia dire il potervi avere anche una sovranità statuale, il diritto di legiferarvi…Di fondamentale importanza, per comprendere nel profondo la questione, sono anche i dati, non sempre ben evidenziati, relativi alla circostanza che i dirigenti sionisti fondino la propria identità nazionale solo sulla religione, non accordando la possibilità di emigrare in Israele a persone di origine ebraica ma di religione diversa da quella israelitica… quegli stessi dirigenti israeliani che avrebbero voluto includere nel loro Stato, oltre all'intera Palestina storica, anche porzioni di Libano, attuale Giordania, Iraq, Siria, ed Egitto, per aumentare le proprie disponibilità idriche: intenzione evidente anche nelle bande della bandiera israeliana, che indicano i confini "relitti" che sarebbero dovuti essere d'Israele: dal Nilo all'Eufrate… Palese appare, inoltre, che le classi dirigenti di Tel Aviv, senza distinzioni di destra e di sinistra, abbiano cercato di ottenere il maggior numero di terre possibile col minor numero di arabi possibile: per questo avevano colonizzato e non annesso Cisgiordania e Striscia di Gaza, per questo avevano annesso Gerusalemme Est ed il Golan, nonostante annessioni e colonizzazioni siano illegali. In ogni modo, lavori validi sulla Palestina ce ne sono, ma difficilmente, non a caso, riescono ad emergere molto per il grande pubblico."
FRANCHI: "Come sogni e come immagini il futuro del popolo palestinese?Quali sono le tue sensazioni in proposito? Cosa manca per ristabilire giustizia e libertà? Cosa, infine, possiamo fare per loro?"
RICCIARDI: "Per ristabilire una situazione di giustizia in Palestina sarebbe necessario un sistema di relazioni molto più bilanciato a livello internazionale: storicamente, tale equilibrio è mancato in maniera gravissima, mentre la giustizia stessa è equilibrio. Le "mediazioni" tra le due parti, quella israeliana e quella palestinese, sono avvenute avendo, quale maggiore e determinante "arbitro", il governo statunitense, fin dalle origini sbilanciato a favore di Israele, sia per le fondamentali influenze politico-finanziarie della potentissima comunità ebraica degli U.S.A., che per effetto di una mentalità imbevuta dall'aberrazione "cristiano-sionista". Il governo di Washington ha così bloccato la esecutività di tutte le numerosissime condanne dell'O.N.U. contro il governo di Tel Aviv. A questo punto s'impone anche una riflessione sulla parziale inadeguatezza della stessa O.N.U., nella quale non vige una piena democrazia, dato che pochissimi Paesi, membri del Consiglio di Sicurezza di questo organismo a carattere planetario, possono bloccare gli effetti concreti delle varie risoluzioni decise, invece, a maggioranza reale. Ora, il nuovo presidente americano Barack Obama ha dato alcuni segnali di discontinuità, in senso positivo, rispetto alla politica di George W. Bush: Obama, già quando era un senatore dell'Illinois, era stato uno dei pochi (attenzione: pochi pure tra i democratici) parlamentari statunitensi a votare contro l'aggressione all'Iraq del 2003, adesso è favore del dialogo con Cuba, con l'Iran, ha fatto chiudere quella vergogna che era il carcere di Guantànamo, ecc… Tuttavia, il punto dove è più difficile che lo stesso Obama abbia una politica che perlomeno si avvicini alla giustizia riguarda proprio la Palestina, in quanto il mettersi contro determinate lobbies può costare parecchio a qualunque presidente U.S.A.. Il margine di libertà dei presidenti americani non è totalmente illimitato e forse, a volte, essi stessi non possono agire completamente secondo le proprie convinzioni. Credo, tra l'altro, che sia molto interessante il caso dell'ex presidente americano Jimmy Carter, il quale, ormai non più a capo del governo a stelle e strisce da molti anni, ha voluto incontrare i leader del movimento palestinese Hamas, ha definito criminale l'embargo contro la Striscia di Gaza, ed ha accusato Israele di attuare un sistema di apartheid contro i palestinesi. Tutto ciò, io penso, fa onore a Jimmy Carter, ma ho i miei dubbi che questi avrebbe potuto esprimersi così quando il presidente degli Stati Uniti d'America era lui stesso. Venendo a quello che sarebbe auspicabile per la Palestina, per ragioni di spazio mi limito ad indicare solo uno dei programmi la cui realizzazione è auspicabile: il rientro dei milioni di profughi costretti a vivere accampati, nella speranza di poter tornare nelle loro terre. Uno Stato palestinese in Cisgiordania e Striscia di Gaza, anche se sarebbe solo una piccola porzione della giustizia che sarebbe necessaria, dato che questi territori costituiscono solo il 23% della Palestina storica (di tale 22%, però, i palestinesi controllano pienamente solo circa il 20%) sarebbe, in ogni modo, meglio del nulla assoluto, dato che uno Stato è, comunque, un punto di forza per un popolo, che altrimenti è molto più esposto ai pericoli che comporta il vivere senza questa sorta di "rete di protezione". Tuttavia, la presenza delle colonie abusive ebraico-sioniste in Cisgiordania e l'intensa crescita demografica dei palestinesi nei territori del possibile, futuro piccolo Stato palestinese ed  in Israele (secondo diversi studi, i palestinesi compresi all'interno dello Stato d'Israele potrebbero infatti superare gli ebrei tra meno di un secolo, anche senza considerare un ritorno dei profughi arabi originari di quelle terre) potrebbero minare alla radice l'idea dei "due popoli due Stati". A questo punto, un'idea migliore può darsi che sia quella di un unico Stato nei territori della Palestina storica, nel quale cristiani, ebrei e musulmani possano convivere pacificamente…su un piano, però, di parità: quindi senza discriminazioni. A proposito, invece, di quello che si possa fare dall'Italia a favore del popolo palestinese, credo che, in particolare, sia una onesta e limpida, trasparente informazione sull'argomento, che progetti di volontariato e cooperazione possano essere forieri di molti buoni frutti. Per chi è attento alla politica, inoltre, secondo me sarebbe da tenere in conto il valorizzare quei gruppi che hanno una posizione più equa sulla Palestina, e di provare a sensibilizzare verso questa prospettiva quelli che invece non l'hanno, almeno in maggioranza, nel giusto conto. Guarda, non faccio un discorso di sinistra o di destra (o meglio, sulle varie sinistre e destre): quella del popolo palestinese è una questione umana e di giustizia, per cui io, a questo proposito, rivolgo questo questo mio appello erga omnes, cioè verso tutti…tutti, almeno, coloro i quali non siano totalmente prevenuti sul tema."
 
FRANCHI: "Progetti futuri? Cosa possiamo attenderci da Antonella Ricciardi?" 
 
RICCIARDI:  "Per il momento, continuerò a svolgere la mia attività di giornalista, cercando, compatibilmente con possibilità editoriali e di tempo, di dare maggior luce a notizie ed argomenti che lo meritino, e di seguire i miei interessi, nei quali la Palestina continua ad avere un posto importante, ma che vanno anche molto oltre questa. Per ora, quindi, non ho in programma eventuali altri libri, dato che ho intenzione di dedicarmi a curare soprattutto questo che è uscito, poichè, a dire il vero, ho avuto pochissimo tempo finora da spendere a questo fine, essendomi da pochissimo abilitata all'insegnamento con la Ssis (Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario) per le materie della mia classe di concorso: la filosofia e la storia, cui si dovrebbe potere aggiungere anche l’educazione civica. Si è trattato, in effetti, di un percorso molto pesante, durato circa un anno e mezzo, ma che, alla fine, mi ha portata alla soddisfazione molto bella di averlo terminato con pieno successo. Adesso, quindi, sono libera di disporre di un tempo molto maggiore per me, che cercherò di vivere nel modo più fruttuoso possibile, anche per quanto riguarda il mio ruolo di giornalista e saggista, naturalmente…." 
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Antonella Ricciardi (Santa Maria Capua Vetere, 1979), laureata in Filosofia, giornalista. Questo è il suo primo libro. 
Antonella Ricciardi, “Palestina. Una terra troppo promessa”, Controcorrente, Napoli, aprile 2008.  Prefazione di Gilberto Roch.  
In Lankelot: scheda di Antonella Ricciardi 
Gianfranco Franchi, “Lankelot”, Maggio 2009.

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