L’America fratricida (prima parte)

Esistono momenti nella vita dei popoli in cui, attraverso grandiosi turbamenti, tutto il panorama storico si altera. Strutture costruite da secoli e radicate nelle coscienze attraverso i miti, le consuetudini, le credenze, la tradizione, le ideologie e gli interessi economici, precipitano. Altre idealizzazioni si fanno strada e dalle macerie si genera una nuova realtà, una nuova problematica politica. Si disegnano le linee maestre di un quadro entro cui si svolgeranno, per decenni o per centinaia di anni, le vicende di quel dato paese e, qualche volta, dell’umanità. Sono, in senso lato, le età rivoluzionarie, che vanno studiate a fondo, dalla loro genesi, se si vuole comprendere fatti e problemi che, celatamente, sono dinnanzi a noi ancora oggi.
Tale fu l’immane conflitto che lacerò l’America, dall’aprile 1861 al maggio 1865 e che indifferentemente si definisce “di secessione”, “guerra civile” o, con un’espressione forse storicamente più corretta, “guerra tra gli Stati”.
Eppure, il mondo intero, e specialmente l’Europa, non hanno saputo mai abbastanza di quella tragica e sanguinosa vicenda fratricida. Quando il sipario si chiuse, sull’ultimo atto della sua rappresentazione, la nazione americana, convinta di un “futuro già cominciato”, contando le proprie ferite, rimase esterrefatta nell’apprendere quanto spaventoso fosse stato il prezzo dello scontro. Calcolarlo con esattezza, fu impossibile. Secondo il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti esso raggiunse la somma, per il Nord, di sei miliardi e centonovanta milioni di dollari (di allora); per il Sud, circa la metà. Ma se a questo si aggiunge il valore delle distruzioni in proprietà pubbliche e private, i debiti contratti dagli Stati e la quota delle pensioni, l’ammontare sale a venti miliardi di dollari. E ben più terribile del costo in denaro, fu il prezzo del sangue. Complessivamente, sui campi di battaglia, negli ospedali, in prigionia, le perdite, da entrambe le parti, superarono, e di molto, il milione di unità.
Eppure tutte queste nude cifre, spaventose fin che si vuole, non danno che una pallida idea delle terribili mutilazioni subite dalle popolazioni, sia nordiste che sudiste. Lasciano solo intravvedere le sofferenze ed i patimenti, le privazioni, le lacrime che si celarono dietro; non dicono niente dei focolari dispersi, delle madri e dei padri che piansero i figli perduti, della legione innumerevole degli orfani, della schiera di vedove rimaste sole, del vuoto che quei morti lasciarono, privando del loro contributo, oltre che i propri contemporanei, anche l’America del domani.
Purtroppo, nella stragrande maggioranza, rappresentavano la “elitè” morale ed intellettuale, sia del Settentrione che del Meridione, che fu crudelmente mutilata.
Così come accade in tutte le guerre, anche in quella, gli egoisti, i pavidi, i vili, gli approfittatori, rimasti a casa, non subirono falcidie. E tutto ciò senza calcolare la demoralizzazione prodotta dagli avvenimenti, dalle privazioni, dalla miseria, dall’abitudine alla violenza. Il giorno in cui si riuscisse mai a fare un tale consuntivo (ma chi mai ne avrebbe la capacità), il quadro sarebbe tale da far rabbrividire.
Chi venne dopo, ahimè, imparò ben poco, se non nulla, da tutto ciò. Anche gli insegnamenti bellici andarono in gran parte perduti. Nulla fu appreso sulla la mobilitazione militare ed industriale, sulle risorse di un grande popolo, ai fini della vittoria; nulla sull’uso del blocco navale in larga scala e la resistenza ad esso; nulla, soprattutto, sulla rivoluzione tattica generata dall’avvento del fucile a canna rigata. Le tragiche esperienze di Malvern Hill, di Fredericksburg, di Gettysburg, di Chickamaugua, di Wilderness, di Cold Harbor si dissolsero stupidamente. Al contrario, si sarebbero potute evitate le folli ecatombi della Prima Guerra Mondiale, allorché centinaia di migliaia di uomini furono lanciati alla baionetta contro le trincee difese da armi automatiche, da Verdun all’Isonzo, dalla Somme a San Quintino, in quella che un grande Pontefice, Benedetto XV, giustamente definì “l’inutile strage”. L’Europa fu cieca. Troppo orgoglio e troppi pregiudizi in un continente che, perdurando nell’errore, dopo il suicidio politico della Seconda Guerra Mondiale, si risvegliò dolorosamente per piangere sulla primogenitura perduta.
Tornando agli Stati Uniti, il dato di fatto visibile a tutti fu che la guerra aveva definitivamente chiuso un’epoca della storia americana aprendone un’altra, lontana dalla precedente. Nelle trincee fangose lungo le strade maestre della Georgia e del Tennessee, ai crocevia della Virginia e sui campi dell’Arkansas, un mondo era morto e sepolto. Era quello, antico e consolidato, del “gotha” agrario meridionale, il mondo che aveva dato vita a quella classe politica da cui erano usciti Washington e Jefferson e che aveva sostanzialmente governato l’Unione per quasi un secolo. La classe dei piantatori sudisti era stata più radicalmente sconfitta e rovinata di quanto non lo fossero stati la nobiltà ed il clero, al tempo della Rivoluzione Francese. Sulla cresta dell’onda provocata dall’assassinio di Abramo Lincoln (14 aprile 1865), i vincitori riuscirono a far valere sui vinti una “pace cartaginese”, ottenuta, come quella che l’Impero Romano impose a Cartagine, a condizioni estremamente restrittive e di ricatto, perché intimate da un soggetto di gran lunga più forte. L’emancipazione degli schiavi fu immediata, totale e senza indennità, e la classe dei piantatori, grossi e piccoli, si trovò non soltanto privata di colpo dell’intera forza-lavoro, ma anche espropriata completamente, e senza il minimo indennizzo, di qualsiasi capitale.
La parte di esso rimasta, quella cioè investita direttamente nella proprietà terriera sotto forma di semine, nelle opere di manutenzione fondiaria, negli edifici, negli attrezzi da lavoro e nel bestiame, subì subito spaventevoli distruzioni o confische. Nello stesso tempo, con un tratto di penna, il debito pubblico e la moneta confederata furono svalutati a zero.
In questa situazione, il Sud aveva davanti a sé la prospettiva di lunghi anni di durissimo lavoro e di miseria. Né ci fu, per favorire quel “Mezzogiorno”, l’intervento di alcun “Piano Marshall”. Il generoso proposito del Presidente Lincoln, di avanzare una grossa somma di denaro a titolo di indennizzo, fu seppellito insieme a lui.
In Europa, al contrario, dopo la Grande Guerra, la Germania che aveva avuto ben più gravi responsabilità storiche di quanto non ne avesse avuto, a suo tempo, il Sud degli Stati Uniti, ricevette dai vincitori tali e tanti aiuti che non le fu difficile ricostruire, in tempi relativamente brevi, la sua economia e, addirittura, rianimarsi per scatenare, nel 1939, un nuovo conflitto.
L’effetto fu, in pratica, la riduzione, di quei vasti territori, a colonia, qualcosa di simile a quello che, secondo le denunce dei nostri meridionalisti, accadde in Italia dopo il Risorgimento, ma in misura infinitamente più drastica e più grave. In tutto e per tutto subì il destino dei paesi agricoli, economicamente arretrati, dell’Oriente e dell’Africa, che furono colonizzati dalle potenze europee: mercato obbligato di sbocco per la produzione industriale del Nord.
Se quelle terre erano già povere prima, dopo lo divennero ancora di più. Nel 1900, a mezzo secolo di distanza dal conflitto, gli Stati Confederati, che prima producevano circa il cinquanta per cento della ricchezza nazionale, arrivarono a produrne soltanto il dieci. Si pensi che nel 1965 il Mississipi era ancora uno tra gli Stati più indigenti degli USA, con un reddito pro-capite di soli 829 dollari, cioè meno della metà di quello medio americano.
La ripresa sarebbe cominciata solo molto più tardi ed in mutate condizioni.

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