La democrazia in Birmania: ennesima scommessa persa!

Si è aperto a Jakarta, in Thailandia, il vertice di Asean tra le Nazioni del Sud-Est Asiatico che proverà a fare pressioni sulla giunta militare delle Birmania (o Myanmar) per la cessazione immediata delle violenze e il ripristino delle libertà nel Paese asiatico.
Il Covid-19 e l’emergenza sanitaria mondiale ad esso legata, monopolizzano le news e le informazioni che ogni giorno ci vengono elargite dai mass media, ma nel mondo purtroppo non si muore solo di Covid e ci sono altri drammi che rischiano di passare in secondo piano.
E’ il caso della Birmania. Ma cosa sta succedendo in questo Paese da sempre dilaniato da continue lotte interne? La guerra civile sembra essere ormai alle porte mentre continua il massacro di massa perpetrato dall’esercito nei confronti dei manifestanti scesi in strada che chiedono il ripristino delle libertà e la scarcerazione dei leader politici, regolarmente eletti e arrestati a seguito di un colpo di stato, l’ennesimo.
Il 1° febbraio scorso infatti, è stata deposta e arrestata anche la Presidente del Paese, Aung San Sun Kyi, detta The Lady, macchiatasi, secondo l’esercito di pesanti brogli elettorali durante le elezioni dello scorso novembre, che hanno permesso di ottenere al suo partito 368 seggi sui 434 disponibili e lasciandone al partito appoggiato dai militari solo 24. The Lady, come dal titolo del film che Luc Besson le ha dedicato per essere stata simbolo della libertà e della democrazia, era stata già per quindici anni agli arresti domiciliari per la sua attività di leader dell’opposizione a difesa dei diritti umani del suo Paese, oppresso da sempre dal potere di giunte militari. La sua attività le ha consentito di vincere numerosi premi internazionali, prima di essere insignita del Premio Nobel per la Pace nel 1991, anche se nel 2016 la comunità internazionale le ha revocato numerosi di premi e gettato ombre sul suo operato per aver negato di fronte alla Corte di Giustizia dell’Aja, il genocidio della minoranza musulmana Rohingya da parte dell’esercito, con cui era “venuta a patti”, con una sorta di conciliazione per mantenere il consenso ottenuto con le precedenti elezioni del 2020.
Dopo quest’ultimo colpo di stato, l’esercito ha decretato lo stato di emergenza per un anno “per poter preservare la stabilità della Birmania” e tutti i poteri sono passati nelle mani del capo delle forze armate. Per decenni, i militari hanno avuto il comando, a partire dal colpo di stato del 1962, rafforzato ulteriormente con il golpe del 1988. Neanche la transizione “quasi” democratica che ha portato il partito di San Sui Kyi a governare e guidare il Paese ha allentato la morsa dell’esercito sul Governo che ha conservato sempre Ministeri fondamentali quali quello dell’Interno, della Difesa e delle Frontiere, portando l’economia un tempo florida, a diventare depressa e piena di disuguaglianze sociali, il tutto aggravato dalle pesanti sanzioni internazionali che negli anni sono state inflitte al Paese.
Dietro al golpe, come sempre, ci sono grossi interessi economici: prendendo il potere, il Generale Hlaing ha protetto gli interessi finanziari della sua famiglia, oltre a dare all’esercito il controllo assoluto sull’economia. Secondo il gruppo degli attivisti “Justice for Myanmar”, Hlaing detiene l’autorità suprema su due importanti holding del Paese che hanno investito nell’attività dei porti, nell’attività di depositi di container, nelle miniere di giada e rubini, nell’edilizia, nell’immobiliare e in altri settori molto lucrativi. La famiglia controlla diversi settori, dal commercio di tecnologie farmaceutiche e mediche a quello dei villaggi vacanza e resort, fino ad arrivare all’industria cinematografica… e tutte queste attività contribuiscono a sostenere l’esercito! E di recente sono stati siglati importanti accordi per l’acquisto di armamenti ed equipaggiamenti militari dalla Cina, dalla Russia e da Israele. Senza il golpe, il generale ora a capo del Paese, oltre a non poter tutelare i suoi interessi finanziari e contribuire alla vita dell’esercito, con molta probabilità sarebbe stato anche arrestato per il massacro del popolo Rohingya tra il 2016 e il 2017 che ha portato 730mila profughi a rifugiarsi in Bangladesh.
Intanto le grosse aziende internazionali operanti nel Paese hanno sospeso le loro attività preoccupate dalle nuove possibili sanzioni internazionali per tutti quei settori che hanno legami con l’esercito.
Decine di migliaia di uomini e donne sono scesi da subito in strada e continuano a manifestare pacificamente nonostante i massacri e le pesanti repressioni dei militari. Il rapporto di forza è proibitivo, lo scontro è davvero impari, ma non bisogna mai sottovalutare l’energia e il coraggio di un popolo che marcia per la propria libertà: per adesso nemmeno le minacce, i morti e l’imposizione della legge marziale sono riuscite a fermare la popolazione.
Anche se sembra non esserci spazio per nessun compromesso per questo Paese tormentato, finora niente ha potuto nemmeno il sangue dei tantissimi manifestanti disarmati, di tutte le età, uccisi dall’esercito.
I Paesi occidentali e gli Usa condannano quanto sta accadendo e promettono nuove sanzioni. Purtroppo sui colloqui internazionali pesa la presa di posizione della Cina che ha presentato il colpo di stato avvenuto solo “come un rimpasto ministeriale”.
E così, la Birmania è diventata la “solita partita” fra Usa e Cina e le parole del neo Presidente americano Biden non lasciano sperare niente di buono e nessuna distensione quando afferma che il Presidente cinese Xi Jinping “…non ha un’oncia di democrazia nel suo corpo”.
Quando interverrà l’Onu? Per adesso sembra tutto tacere e nemmeno il grido di aiuto dell’ambasciatore birmano alle Nazioni Unite che già il 26 febbraio scorso chiedeva di ristabilire con “qualsiasi mezzo necessario” la democrazia nel suo Paese è stato ascoltato, anzi l’esercito l’ha sollevato immediatamente dall’incarico accusandolo di tradimento. E il massacro continua. I birmani pagano il prezzo delle divisioni del mondo attuale e come accaduto con la Russia in Siria, l’Onu si scontra con la Cina e la sua influenza in Birmania. E questa nuova realtà in Birmania sembra assomigliare sempre di più alle vecchie. La storia insegna, ma l’uomo non impara. Non vuole imparare.

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