Un appropriato epitaffio
Il 12 aprile del 1945, quando giunse la notizia della morte del Presidente americano Franklin Delano Roosevelt, nel bunker di Berlino, echeggiarono grida di incontenibile esultanza. Vi fu un vero e proprio festeggiamento, con tanto di champagne, dolciumi, musica, danze e lieti brindisi. Nel mezzo di quella gioia, sedeva Adolf Hitler guardandosi intorno, sorridente, con un’aria stordita e benevola, reggendosi la mano sinistra con la destra, per fermarne il tremito. Anche Joseph Goebbels, il potente Ministro della Propaganda del Reich, si muoveva impazzito e zoppicante, sbandierando un giornale e gridando: “Soltanto volti allegri qui, questa sera, meine Führer! E’ la grande svolta, finalmente. Il cane impazzito ha tirato le cuoia!”. Ecco l’improvviso cambiamento che la Germania stava aspettando, lo storico ripetersi del “miracolo della Casa di Brandeburgo”, con la liberazione di Federico il Grande, grazie alla morte dell’Imperatrice Elisabetta di Russia, in versione 1945 e non 1762. Si trattava di un grande successo per gli astrologhi, che avevano predetto una “grande svolta”, a metà aprile. Anche se i russi del Generale Georgij Konstantinovič Žukov si stavano ammassando lungo le rive dell’Oder, in un punto ad appena cinquantasei chilometri dal rifugio; se Dwight D. Eisenhower, Comandante in Capo del Supremo Quartier Generale delle Forze di Spedizione Alleate, stava marciando verso l’Elba, sfondando le linee tedesche in Italia; se un altro contingente sovietico, agli ordini del Generale Ivan Stěpanovič Koněv, attraverso i Balcani stava puntando verso Berlino e dal cielo che sovrastava la città, piovevano bombe giorno e notte; anche se la produzione bellica tedesca era virtualmente cessata, le truppe non avevano più né munizioni né carburante, se milioni di profughi, provenienti sia da est che da ovest ingorgavano le strade, impedendo i movimenti della Wehrmacht ed i treni venivano deviati qua e là dalla SS e bloccavano tutto il sistema ferroviario tedesco, nella tana delle talpe, in cemento, sotto la Nuova Cancelleria del Reich (Neue Reichskanzlei), che importanza aveva tutto ciò? Era quello un luogo di sogni e di fantasticherie, dove ogni pretesto che giustificasse un minimo ottimismo veniva gonfiato come “una grande svolta” e nessuna svolta eguagliò mai la breve esultanza per la morte di Roosvelt.
Il 13 aprile, l’Armata Rossa occupò Vienna e questo fece sfuggire un po’ di gas dal pallone, anche se il Reichsleiter (Capo del Reich) Robert Ley, colui che dirigeva la mano d’opera nella Germania nazista, in quello stesso giorno si recò nel nascondiglio per annunciare la nascita del “raggio della morte”, una nuova arma letale, semplice da fabbricarsi come una mitragliatrice. Un’altra grande svolta! Ma l’impostura di una “arma miracolosa”, una “arma segreta”, della quale generali, industriali, alti papaveri della politica e persone comuni ne agognarono subito l’utilizzo, non fu che una crudele illusione, creata mediante “indiscrezioni” e campagne di bisbigli, soltanto per far sì che lo spargimento di sangue si protraesse e che il cancro nazista continuasse a proliferare. Nel 1945 quel cancro era diffuso, per metastasi, in tutta la Germania. Idioti teppisti del partito, come Ley, permeavano le strutture dello Stato. Le Waffen SS erano diventate un esercito rivale ed assorbivano tutte le migliori nuove leve e le armi più efficaci. Il loro comandante, il Reichssicherheitshauptamt (Direttore Generale per la Sicurezza del Reich) Heinrich Himmler aveva, del suo nuovo incarico, la sola idea di dover necessariamente fucilare gli ufficiali incapaci di tenere posizioni indifendibili, sulle quali aveva ordinato di resistere. Ponti e villaggi, erano “festonati” con cadaveri impiccati di soldati tedeschi, bollati come vigliacchi o disertori. Naturalmente, tutta quella “ispirazione” nazionalsocialista ridusse ancor più, se non del tutto, l’ormai languente capacità di resistenza delle forze armate germaniche.
Il 20 aprile, durante la lugubre piccola festa, in occasione del cinquantaseiesimo compleanno del Führer, il Generale Alfred Jodl, Capo di Stato Maggiore della Wehrmacht, consigliò al suo ormai unico comandante di raggiungere immediatamente, in aereo, Obersalzberg, un piccolo e sperduto paese della Baviera, per continuare da lì la guerra, poiché i proiettili russi stavano ormai cadendo sulla Cancelleria e scuotendo il bunker. Quella volta Hitler non poté essere rassicurato con banali menzogne. Posto faccia a faccia con la verità, dopo essersi abbandonato ad una sfuriata talmente orribile, che in seguito nessuno dei presenti riuscì a parlarne o a scriverne in modo coerente, prese la decisione di uccidersi. Nulla avrebbe potuto modificarla. Il risultato fu un grande esodo, il giorno dopo, dal fortificato nascondiglio. Tutto il suo seguito di nazisti sgattaiolò per rintanarsi altrove, in città. “Sauvez qui peut!” (Si salvi chi può!). Quello che, prima di scalare con mille manipolazioni politiche le vette del partito nazionalsocialista, era stato persino un “imbianchino” per guadagnarsi una pagnotta durante il suo soggiorno viennese, prima della Grande Guerra, anche alla fine della propria esistenza, non aveva cambiato nulla del suo classico atteggiamento. Era stato un arringatore di folle, ma non aveva mai saputo conversare. Insisteva con logorroici monologhi che, ad ogni imbeccata, seguitava a ripetere, come un disco o come un copione da attore. Ecco perché, sebbene possedesse un’intelligenza acuta ed un certo rozzo spirito, tutte le memorie definiscono la sua compagnia incredibilmente noiosa. Ancor più, durante quella irrimediabile agonia, replicava incessantemente di essere stato tradito, sin dal 1939. I suoi soliloqui passavano in rassegna, con particolari straordinariamente precisi, l’intero conflitto, la grandiosa strategia di guerra che lui aveva concepito e che non avrebbe potuto fallire, se non per l’incompetenza ed il tradimento dello Stato Maggiore Generale. Lui aveva avuto ragione, i generali no. Era un farneticante paranoico che, in quel rifugio sotterraneo a Berlino, tremava ad ogni esplosione, spiegando per la millesima volta come la catastrofe della sua Germania fosse stata colpa di tutti, tranne che sua, e come lui, governante assoluto che aveva diretto la guerra dall’inizio alla fine, non avesse mai commesso alcun errore. In un documento che, dopo la guerra, si rivelò il suo testamento, accusava soprattutto gli ebrei. I fiumi di parole, che lo hanno raccontato, lo raffigurano come una sola complicata persona. Secondo alcuni storici, invece, nazionali e non, sono esistiti due Hitler. Il “primo”, era stato innegabilmente “l’anima della Germania”, esprimendo appieno il vigoroso anelito del suo popolo. Aveva apportato prosperità e tranquillità e, sebbene avesse trascinato il proprio paese in guerra, aveva dimostrato, inizialmente, un particolare fiuto per le occasioni avventurose, nella strategia militare. Il “secondo” era emerso a Stalingrado, dimostrandosi un uomo completamente diverso, un mostro impazzito. Si rivelò sempre più tale, man mano che le avversità facevano cadere, ad una ad una, le maschere multiformi che aveva escogitato, evidenziando un individuo stroncato e balbettante. Una visione storica, altrettanto balbettante questa! Adolf Hitler aveva costretto il suo popolo a commettere virtualmente tutti i crimini per i quali il mondo intero esecrò la Germania nazionalsocialista. Ed anche il modo con cui scelse di morire mise a nudo il suo carattere. Un condottiero può cadere sulla propria spada, al termine della battaglia, così come un comandante può colare a picco con la propria nave, ma per un capo di stato è tutt’altra cosa. Abbandonare la propria carica nell’ora delle sofferenze peggiori per la nazione, lasciare ad altri il compito di liquidare i suoi disastri ed i suoi crimini, sparare al proprio cane, avvelenare l’amante e cercare la fine con una canna di pistola, non fu “una morte romana”, come la definirono i suoi apologeti, fu una morte da codardo isterico. Il Bonaparte, nella sconfitta, si comportò come un vero sovrano. Affrontò coloro che lo sconfissero, accettò il proprio fato e purgò la Francia di quelle che erano state le sue colpe. Ma il corso fu un vero soldato, Hitler non di certo, sebbene avesse parlato, a non finire, della sua guerra di trincea. E lo stesso processo di Norimberga non dimostrò altro che la furia dei nemici, frustrati perché il “demonio” era sfuggito alle loro mani. Quella farsa, vendicativa ed ingiusta, condannò un’intera nazione per le azioni di un solo individuo scomparso, impiccando ed imprigionando generali che, in gran parte, erano stati obbligati, dall’onore e dalle minacce, ad ubbidire a quell’uomo. Se Hitler avesse abdicato, offrendo se stesso alla rabbia dei vincitori, tale dimostrazione di dignitoso e doveroso coraggio avrebbe contribuito in vasta misura a riscattare, forse, i suoi errori. In ogni caso, da vero maestro in fatto di demagogia, riuscì, con l’inganno, ad aprirsi la strada fino al potere assoluto. Poi, come “Signore della Guerra”, tradì la fiducia che avevano riposto in lui. La Germania era una nazione troppo vigorosa per non riprendersi con il tempo. Per quanto disastrosa fu la sconfitta, lo spirito teutonico continuò a marciare a grandi passi. Del resto, gli americani, che proprio in questi giorni stanno ispezionando Marte, hanno camminato sulla Luna, spinti fin lassù da un razzo V-2 tedesco, modificato e perfezionato a seguito di un programma diretto da menti tedesche. La realtà storica, però, non può essere sfatata. Quella nazione, all’apice della sua potenza, fu annientata dall’interesse di un volgare codardo. Napoleone giace da due secoli nella “Dôme des Invalides”, in una splendida tomba e monumento mondiale. I resti di Hitler finirono carbonizzati, in una vampata di benzina. Solo Shakespeare avrebbe potuto comporre il suo epitaffio: “Nulla, nella vita, gli si confece quanto il modo in cui la lasciò”.