Il mondo delle “spie”, tra romanzo e realtà (prima parte)
L’attività informativa è antichissima. La letteratura ha spesso presentato, come eroe, l’agente segreto oscuro e silenzioso che, in nome di un ideale superiore, rinuncia a tutto, persino alla propria identità. E, nel contempo, ha mostrato l’antitesi, cioè il traditore, il doppiogiochista che, per tornaconto personale, calpesta principi e sentimenti. Due posizioni estreme quindi, due specifici generi, tanto letterari quanto reali. Indiscutibilmente, l’attività di “Intelligence” è sempre apparsa sconosciuta ma indispensabile e, di conseguenza, sotto questo profilo, l’Agente Speciale, nella sua condizione naturale di solitudine, non poteva sfuggire alla narrativa.
Una sessantina di anni fa, e più precisamente nel 1963, uno sconcertante episodio turbò le collettività del mondo occidentale. Kim Philby, alto dirigente dei Servizi di Sua Maestà britannica, assunto nel ’39 dall’MI-6 (Military Service – Section 6), fuggì in Russia, gettando la maschera e rivelando di essere diventato, già dal 1934, un Agente sovietico. La notizia, che fece il giro del mondo, fu traumatica, e non solo in Patria. Sembrava incredibile che un cittadino inglese potesse tradire il proprio Paese. Inoltre, quella che con un’immagine apparentemente tranquilla era stata chiamata “Guerra iredda”, tutto a un tratto rivelò i propri aspetti più inquietanti, convincendo l’opinione pubblica che letteratura e cinema di spionaggio erano, dopotutto, meno fantasiosi di quanto apparisse.
Con il senno di poi, la scelta di Philby può sembrare assurda e poco elegante, anche se gli va riconosciuto di aver agito sotto la spinta di motivi ideali, come risulta nel suo libro confessione, intitolato “My Silent War” (La mia guerra silenziosa), che pubblicò dieci anni dopo. Il volume suscitò indignazione, accresciuta dal fatto che si giovò di una prefazione dovuta all’illustre scrittore connazionale Graham Greene. Non si sa se “il disertore” abbia avuto tempo e modo di ravvedersi. Probabilmente no, perché vi sono errori così gravi, da non permettere pentimenti. Certamente la notizia dimostrò ampiamente che se la società del Regno Unito e, più in generale, quella europea non era poi tanto perfetta, era altrettanto vero che anche altri diversi “modelli” avevano offerto analoghe delusioni, confermando che la democrazia continuava, e continua, ad essere il male minore.
A seguito di tali accadimenti, la gente si rese conto che le “spie” vivevano nella quotidianità, oltre che nei romanzi. E la letteratura spionistica vide confermato un salto di qualità, già avviato negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, quando divenne sempre più chiaro che, in tema di spionaggio e di controspionaggio, la fantasia non sarebbe mai riuscita ad eguagliare la realtà. Alcuni Agenti Segreti impugnarono la penna ed incominciarono a raccontare.
Un sommergibile tedesco silurò ed affondò, il 7 maggio 1915, il transatlantico inglese “Lusitania”, provocando la morte di milleduecento passeggeri, tra i quali molte donne e bambini. L’orrore per l’eccidio affrettò l’entrata in guerra degli Stati Uniti, al fianco dell’Intesa. Si disse, verosimilmente, che i Servizi britannici, consapevoli del grave pericolo, avessero inviato volontariamente il piroscafo al massacro, per fare pressione sull’opinione pubblica americana. Ma si disse anche che il “Lusitania” trasportasse, oltre ai passeggeri, un ingente carico di munizioni ed esplosivi, il cui scoppio determinò un disastro molto più determinate del siluramento in sé, come si dedusse da tutta una serie di intercettazioni dei segnali radio. Italo Sulliotti, probabilmente Agente dei Servizi italiani durante la Grande Guerra, scrisse numerosi racconti, in bilico tra realtà e fantasia, su vicende particolari del periodo, come ad esempio “L’Armata del Silenzio–Episodi di spionaggio”, del 1930. Sulliotti, che considerava molto probabili, se non certe, entrambe le ipotesi sopra citate, offrì una testimonianza forse involontaria, ma non meno significativa, dei fatti realmente accaduti.
Il russo Gorkij ed il polacco Sergiusz Piasecki, autori di due romanzi dal comune titolo “La spia”, ci hanno introdotto nel mondo oscuro degli informatori. A questo proposito, conviene porre una distinzione, che peraltro non è sempre presente nella letteratura di “Intelligence”. Un conto è l’Agente Segreto, altro il semplice informatore, anche se nella narrativa i due termini sono spesso confusamente usati. Il primo è di norma un militare di carriera o un funzionario dell’amministrazione civile; in secondo è quasi sempre elemento di una rete, tessuta ad arte, alla quale fornisce le sue informazioni. Inoltre, le dinamiche a sostegno delle rispettive attività sono ovviamente molto diverse. Le motivazioni del primo sono ideologiche, passionali, funzionali alla missione e, spesso, il suo silenzio, la sua reticenza lambiscono la sfera dell’eroismo; quelle del secondo sono esclusivamente venali.
Gorkij, pseudonimo di Aleksèj Maksimovic Peskov (1868-1936), lo scrittore più rappresentativo della Russia sovietica, che aveva imparato a leggere e a scrivere senza andare a scuola, allievo di un cuoco, ha dipinto il protagonista del suo libro “La spia”, tradotto in italiano nel 1929, Evsei Klimkoff, come un individuo al servizio del regime corrotto. È un romanzo politico questo, che dà all’autore, fermamente ed orgogliosamente russo, la possibilità di illustrare le giuste ragioni della rivoluzione e, forse, esaltare proprio il suo passato da rivoluzionario. Evsei, alla fine della storia, finisce sopraffatto dal rimorso e dalla nausea di sè stesso, paladino di un non ideale, di una entità in avanzata dissoluzione qual era l’impero zarista nel 1917. È schierato dalla parte del male, senza godere della gioia infernale che il male può trasmettere, anzi deprecandone e rifiutandone conseguenze ed implicazioni. È una foglia al vento, un uomo qualunque, uno sventurato, un vinto e la letteratura degli inizi del Novecento ai vinti ha sempre riservato un occhio vigile e pietoso.
Pur rimanendo nello stesso periodo storico, un’aria completamente si respira nei romanzi di John Buchan (1875-1940), uno scozzese che diresse i Servizi inglesi durante la Grande Guerra. Qui la tragedia cede il passo all’avventura. Il suo primo lavoro, “The Thirty-Nine Steps”, (I trentanove gradini), pubblicato in Inghilterra nel 1915, dopo uno strepitoso consenso iniziale, rischiò di rimanere ignorato per sempre se, nel 1935, Alfred Hitchcock non ne avesse tratto un film, dal titolo in italiano “Il club dei 39”. Il successo della pellicola trascinò con sé quello del testo ed il genere “romanzo di spionaggio” partorì il personaggio di un eroe, Richard Hannay, il quale, dalla prima all’ultima pagina, non faceva altro che scappare, inseguito da nemici crudeli e potenti, che lo volevano eliminare. Facoltoso gentiluomo inglese, rientrato in patria, dopo una parentesi di vita trascorsa in paese remoti ed esotici, si è trovato, suo malgrado, a dover contrastare un terribile complotto internazionale, inteso ad uccidere (cosa che accade) il Primo Ministro greco, in visita a Londra ed a creare i presupposti per un conflitto su larga scala. Hannay, divenuto Agente sul campo e costretto alla fuga, dopo un durissimo stress psicologico, riuscirà ad individuare il nascondiglio dei cospiratori assassini e ad arrestarli. Non eviterà, però, lo scoppio della guerra, che avverrà tre giorni dopo i fatti narrati. Anche se il romanzo non suscita grande impressione, a Buchan va riconosciuto un merito considerevole, quello di sdrammatizzare, di raccontare con leggerezza, glissando sulla solitudine dell’animo umano, non negando un certo umorismo, là dove necessario.
Gli avvenimenti tra le due guerre sono stati segnati, in Occidente, dall’evento di tre regimi totalitari, quello fascista in Italia, quello nazista in Germania e quello comunista in Russia. L’americano Upton Beall Sinclair (1878-1968), che ha scritto più di cento opere di narrativa, saggistica, teatro e si è occupato, ad esempio, anche del caso Sacco e Vanzetti, gli italiani giustiziati a Boston nel 1927, nel suo “Presidential Agent” (Agente del Presidente), uscito negli USA subito dopo la guerra e edito in Italia nel 1957, ha trasformato i personaggi storici in personaggi da romanzo, mantenendo la ricostruzione assai puntuale. Non è di certo un capolavoro letterario, ma un’opera singolare che si sarebbe prestata perfettamente ad una riduzione televisiva. Il protagonista, l’Agente Lanny Budd, porta avanti il suo forzato doppio gioco, senza destare sospetti, trovandosi ad essere testimone della guerra di Spagna, dell’annessione dell’Austria, della crisi dei Sudeti, degli illusori accordi di Monaco, della questione di Danzica e del corridoio polacco, insomma di tutti i torbidi avvenimenti che precedettero il conflitto. Sinclair è meno efficace nel rappresentare la condizione di “spia”, il tormento della sua ambivalenza, della sua solitudine. A tratti sembra che Lanny giochi a nascondino e si muova nello spirito di chi è impegnato in una competizione sportiva. Nella descrizione del “manichino” travestito da Hitler, ad esempio, non c’è nulla che faccia di costui un autentico genio del male, venuto al mondo per confermare l’esistenza del diavolo. Ed in quella di Roosevelt, che Sinclair peraltro conobbe personalmente, c’è ammirazione, anzi, spudorata adorazione. Di “spy story” c’è molto poco. È probabile che il nostro autore una vera spia non l’avesse mai vista, nemmeno da lontano e che non sapesse nulla della sua reale attività. D’altronde, un utopista, infiammato dai temi del pauperismo, non sarebbe mai riuscito ad immaginare le sottigliezze della “Intelligence”.