Paolo Mieli e il tribunale della storia. Sempre riunito in seduta permanente
Con una certa civetteria lui stesso si è detto “terzista”, e qualcuno non cogliendo il suo cercare alternative in direzione del ricomporre, l’ha scambiato per equidistanza, per moderatismo, i più maldisposti finanche cerchiobottismo. Paolo Mieli delle etichette sembra però non curarsene troppo e, da fine intellettuale post-esistenzialista, si diverte a proporre prospettive non troppo convenzionali sui fatti della società e della storia, seminando dubbi più che certezze, nella convinzione che siano “le migliori avventure intellettuali possibili”. È per questa sua onesta disposizione che non ho voluto mancare all’incontro pubblico di qualche giorno fa, a Velletri, in occasione della partecipatissima presentazione del suo ultimo libro, “Il tribunale della storia”, nel quale vengono proposte le tesi dell’accusa, le arringhe della difesa e i controinterrogatori degli imputati, in relazione alla mutata percezione di importanti vicende del passato. Un metodo “giudiziario” applicato a protagonisti del calibro di Enea, Fidel Castro, Mussolini, Napoleone, Gesù di Nazareth… per un verdetto finale da considerare sempre provvisorio.
Peccato che le norme anti-Covid non hanno consentito al pubblico di interloquire come in genere avviene, perché nelle intenzioni avevo da porre una questione che mi lasciava un groppo da quando, lo scorso anno, era stata formulata “La terapia dell’oblio – contro gli eccessi della memoria”. Una teoria ribadita (e precisata) in una puntata del programma TV di RaiTre “Quante storie” nel quale Mieli, a proposito della questione meridionale e della conquista delle Due Sicilie “da parte dell’esercito sabaudo”, propose …un frettoloso “voltare pagina”. Proprio lui, che (ne sono certo) mai proporrebbe, ad esempio, la rimozione della memoria per l’Olocausto, per il genocidio armeno o per quello dei pellerossa; proprio lui che quando ha diretto i maggiori quotidiani nazionali, coraggiosamente, non ha esitato a dare spazio alle voci dei “vinti del risorgimento” che spazio, allora, proprio non avevano. E ne ha scritto magistralmente.
Nel corso della serata di Velletri, Paolo Mieli dialogando con Emanuele Cammaroto, ha scherzato sull’ipotesi di una sua candidatura a Presidente della Repubblica promettendo, nell’eventualità, di tornare nella cittadina laziale ed offrire agli astanti una buona tavola di carciofi preparati “alla matticella” la cui preparazione da queste parti è quasi un rituale religioso per farli alla brace. Ha detto della figura popolare di Gasbarrone, che a ridosso degli eventi nient’affatto epici della breccia di Porta Pia, venne maldestramente utilizzata dal nuovo potere politico in funzione antipapalina. Ha accennato a qualche risvolto della politica contingente e, mostrando che la questione non è affatto archiviata, ha concentrato a lungo l’attenzione della sala sul processo che portò all’unificazione italiana.
“Che la si voglia chiamare conquista o annessione, è evidente che l’Italia ha un debito storico nei confronti del Sud” ha detto Mieli, immediatamente e calorosamente applaudito in sala, “i metodi utilizzati per la sua conquista sono stati disonorevoli e il Sud non lo meritava, queste cose vanno dette. Come va detto – aggiunge – che occorre trovare un modo per risarcire il Mezzogiorno, e se non si può farlo economicamente che almeno lo si faccia nei libri di storia. Lo si faccia anche raccontando con maggiore serenità le cose dell’attualità”, come non è stato, ad esempio, con la gestione della pandemia: “tutti prevedevano indicibili tragedie con l’arrivo del Covid al Sud, ma è stato proprio il Sud a dimostrare migliore capacità di reagire all’emergenza rispetto al Nord, perché sottacerlo?”.
E così, sebbene non fosse stata formulata, ho inteso che la mia domanda abbia avuto provvisoria soddisfazione giacché, altro che oblio, “il tribunale della storia, nell’era dell’informazione diffusa, è sempre riunito. In seduta permanente”.