Rivoluzione nelle Forze Armate
Le Forze Armate italiane hanno dovuto fronteggiare, agli inizi degli anni Novanta, uno scenario internazionale in costante cambiamento, per il proliferare di “missioni di pace”, che richiedevano necessariamente nuove tipologie di forze. Queste, a loro volta, per essere impiegabili, esigevano profonde ristrutturazioni, proiettate all’adeguamento di mezzi, equipaggiamenti e sistemi d’arma, ad un livello tecnico compatibile con quello delle Forze Armate degli altri paesi amici e non certo inferiore.
Non è difficile capire come tutto ciò sia stato, a partire da quegli anni, uno sforzo poderoso, giustificabile solo se osservato su prospettive differenti.
Non fu possibile suddividere la politica in tanti settori, separati tra loro. I dicasteri degli esteri, dell’economica, della cultura, della tecnologia, della sicurezza e della difesa, dovettero, anche se con percorsi diversi, essere strettamente interdipendenti nell’affrontare il problema, coordinandosi nella cosiddetta regola dei “vasi comunicanti”. In relazione a ciò, è corretto affermare che, sia l’assetto europeo che quello mondiale posero, sul piano della difesa e della sicurezza, nuove problematiche, che tendevano tutte all’ampliamento delle specifiche esigenze da fronteggiare. I compiti dello strumento militare diventarono, così, più diversificati e meno prevedibili, rispetto al passato. Prese piede una tendenza riduttiva dello stesso, comune a quasi tutti gli stati industrializzati, e legata soprattutto alle difficoltà economiche ed ai travagli contingenti, che affliggevano taluni governi, tra cui quello italiano.
In quelle condizioni, con motivazioni non del tutto dissimili da quelle attuali, si impose un approccio, più pragmatico e teoricamente più valido, ad un processo di progettazione della macchina bellica, che partiva dalla minaccia, per poi studiare come poterla ostacolare. L’adeguamento ad un tale criterio consentì di fare un ragionevole affidamento anche sulle proprie capacità di integrazione, con i corrispondenti apparati dei paesi alleati, prevedendo un’economia di risorse attraverso la ripartizione di ruoli, rischi e responsabilità. Ovviamente si trattò di un “metodo empirico”, che aveva molti limiti, dovuti alle incertezze dello scenario strategico internazionale. Era particolarmente complicato dimensionare le “minacce” ed i “rischi”, mentre la risorsa finanziaria si presentò come l’elemento più vincolante di ogni programma.
La difficoltà principale del metodo empirico fu che il “fattore costo” non costituiva il punto terminale oggettivo, bensì, al contrario, le disponibilità finanziarie ipotizzabili concorrevano a modellare e modulare il progetto stesso. Pertanto, per tentare di delineare le disponibilità finanziarie, occorreva fare delle ipotesi, tenendo conto della realtà di conteggio ed esercitando raffronti con le altre nazioni alleate europee, a noi più o meno omogenee.
È prassi comunemente accettata ancora oggi, per acquisire un’idea precisa del “peso” e dell’incidenza del bilancio nel settore della difesa, assumere, come elemento di valutazione e di paragone, il valore del suo rapporto percentuale rispetto al PIL, al Prodotto Interno Lordo. Anche in questo modo, non è comunque facile ottenere elementi di raffronto del tutto precisi. Per riuscire ad avere paragoni attendibili con i dati degli altri paesi, bisogna depurarli da tutte le quote non omogenee. Ciò nonostante il raffronto, seppur non esatto al cento per cento, è sufficientemente rappresentativo dei “pesi relativi”. Nel 1995, anno a cui si fa riferimento, il bilancio italiano della Difesa, in termini globali, fu pari all’1,5% del PIL. Il rendiconto complessivo delle spese comprendeva quelle per i Carabinieri (fino al 2000 ancora Arma dell’Esercito), che andavano sotto la voce “Funzione Sicurezza Pubblica”, le spese per le pensioni provvisorie, che per moltissime amministrazioni erano a carico del Ministero del Tesoro, ed altre che, come le prime due, sebbene socialmente utili, non erano correlate. Ma se si raffronta l’andamento finanziario dell’Italia, con Francia, Germania e Regno Unito, risulta evidente che la sproporzione tra i livelli delle risorse da noi dedicate a questa funzione, era circa 2,2 volte più piccola rispetto agli altri tre paesi. Il parametro che meglio rappresenta la qualità del sistema, è espresso dal tasso di capitalizzazione dello strumento militare, enunciato in termini di spesa pro capite per soldato. Questo è quanto ci si propose di fare: ridurre la consistenza del personale, per ridurre i costi senza scendere, ovviamente, sotto un certo numero di effettivi e questo, per non perdere il logico significato operativo. Quindi, da un lato contenere le spese di funzionamento della “macchina difesa”, attraverso una riduzione del personale, dall’altro incrementare l’aliquota dedicabile all’investimento. Una riduzione, quindi, degli organici da 320.000 unità a 250.000, aspetto non certo trascurabile, in termini quantitativi.
Sottolineando ancora una volta che sarebbe stato assolutamente inutile procedere ad uno sfoltimento, se non si fosse percorsa, allo stesso tempo, la strada di un generale miglioramento qualitativo, fu deciso di passare, gradualmente, al reclutamento di personale militare esclusivamente volontario e si incominciò, tra l’altro, ad intravvedere l’ingresso, nel mondo in uniforme, della componente femminile. Se da un lato una tale manovra di rivoluzionamento strutturale avrebbe determinato maggiori oneri finanziari complessivi, per il versamento degli emolumenti stipendiali e non più della “decade” riservata al personale di leva, dall’altro lato, sarebbero diminuite le spese di esercizio, per un sostanziale ridimensionamento della struttura territoriale e di quella tecnico-logistica. Il costo generale e complessivo delle attività operative, peraltro, pur in presenza di una contrazione numerica, non sarebbe variato significativamente, perché compensato dai maggiori oneri dovuti ad un impiego più moderno e con contenuti di più elevata tecnologia. In altri termini, nel decennio successivo, si ottenne una sostanziale stabilità di bilancio, in termini reali, dell’ordine di circa otto milioni di euro, considerando l’intervenuto cambio di moneta. Il fabbisogno finanziario fu di circa quaranta milioni di euro, per i successivi quindici anni, che corrispondeva ad una media di circa due milioni e settecentomila euro annui. A tali aggravi, si dovettero aggiungere quelli relativi ad una molteplicità di programmi, cosiddetti complementari, che furono tuttavia indispensabili per assicurare l’assetto operativo dello strumento militare. Tutto ciò rese possibile la riqualificazione della funzione difesa, consentendo un più sano rapporto tra costi di funzionamento e di investimento (2/3 per il funzionamento e 1/3 per l’investimento), simile a quello degli altri governi, nonché una più adeguata ricapitalizzazione del dispositivo.
Fu davvero essenziale quell’inversione di tendenza, ci sempre domandato? È necessario inquadrare sinteticamente quanto era accaduto negli ultimi tempi di quegli anni. Dopo un leasing, in pratica un “noleggio”, durato dieci anni, relativo a ventiquattro velivoli “Tornado MECA” britannici, per sopperire alle vetustà dei famosissimi “Lockheed F-104 Starfighter”, per svolgere le operazioni in Somalia, il governo italiano chiese, sempre in prestito, agli Stati Uniti, una dotazione di carri “M60 Patton”, dotati di piastre di protezione reattiva. Anche i veicoli da trasporto truppa, sui campi di battaglia, presentavano enormi carenze. Era perfettamente inutile mandare in avanti, ad esempio, un blindato del tipo “Centauro”, se questo non poteva essere seguito, con la stessa velocità operativa, dai mezzi che trasportavano gli uomini. Ora, in quelle condizioni non sarebbe stato possibile mettere a disposizione della NATO delle Brigate di Reazione Rapida, con mezzi da combattimento e gli equipaggi, giocoforza, del tutto inadeguati. A ciò si aggiungevano anche notevoli problemi infrastrutturali, necessari anch’essi di risorse, come quelli, ad esempio, derivanti dalla costituzione della Brigata Anfibia, imperniata sull’allora “Battaglione San Marco”, della Marina e sul “Reggimento Lagunari”, dell’Esercito, l’uno di stanza a Brindisi, l’altro a Venezia. D’altra parte, gli impegni di impiego internazionale, sempre più numerosi ed incalzanti, non consentivano di rimandare ulteriormente la costituzione di una Unità che avrebbe materializzato il concetto di gravitazione sul “Fronte Sud” e che andava portato ad effetto, con schieramenti conseguenti, affinché gli altri alleati potessero riconoscere, a loro volta, l’importanza di quella linea meridionale.
La Marina Militare, che aveva la necessità di venti navi di prima linea e venti di seconda, aveva visto invecchiare l’incrociatore “Vittorio Veneto”, mentre si stava delineando l’esigenza di sostituire i due cacciatorpedinieri di classe “Ardito”. Ma non ci fu nulla di finanziariamente palese, per programmarne la costruzione.
E l’Aeronautica, in attesa del nuovo velivolo multiuso “Eurofighter Typhoon” (il cui prototipo era designato EFA, European Fighter Aircraft), che sarebbe arrivato solo agli inizi del 2000, oltre al leasing dei Tornado, di cui si è detto, dovette provvedere a riammodernare i circa cento “F-104 ASA”, che rimanevano tuttavia vetusti e tecnologicamente superati. In quanto, poi, al trasporto aereo tattico-militare, indispensabile nelle operazioni di “peacekeeping”, questo continuò ad essere assicurato dai pochi “Lockheed C-130 Hercules” rimasti.
Così come necessitavano di un potenziamento, comune alle tre F.A., gli organismi di comunicazione, comando e controllo e di “intelligence”, basati sempre più su sistemi satellitari, e quelli di difesa dalla proliferazione delle armi di distruzione di massa.
Quello stringente bisogno di arrivare ad una logica e fattiva programmazione, diede il via ad un rinnovamento operativo e tecnologico che, dopo più di vent’anni, ha dimostrato sempre maggiori risultati ed un tangibile raggiungimento di obbiettivi.
In buona sostanza, per le Forze Armate, così come per l’economia e per la politica, la scelta fu tra il rimanere in Europa o l’esserne estromessi.