Capodanno a tavola dai “Borbone”
Sulla feste e i pranzi tenuti alla reggia di Caserta sono pervenute relazioni entusiastiche. Inizialmente la gastronomia di corte fu sopratutto d'ispirazione francese e spagnola, ma con il passaredel tempo andò ad assumere una propria e piena identità, come è possibile desumere dalle ricette pubblicate da Vincenzo Corrado. Quest’ ultimo fu portato a Napoli come paggio alla corte del Principe di Modena e Francavilla Fontana Michele Imperiali, gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due Sicilie. Appena maggiorenne, entrò a far parte della Congregazione dei Padri Celestini dove si specializzò negli studi di arte culinaria. Vissuto fra il sette e l’ottocento, come capo dei Servizi di Bocca del suo principe, diventò il faro della cucina moderna nobile deliziando gli ospiti con opulenta ospitalità. Il Corrado è stato il primo autore napoletano di un manuale organico di gastronomia Il suo trattato “il Cuoco Galante” comparso a Napoli nel 1773, non oppose pregiudiziali al lessico gastronomico francese a quei tempi dominante, ma nel complesso si mantenne fedele alla pratica tradizionale della cucina italiana, e in particolare napoletana. Ferdinando II di Borbone, detto “il buongustaio”, trascorreva la maggior parte dell’anno a Caserta, nella splendida reggia, circondato dalla numerosissima e si narra che a tavola faceva lui le porzioni per tutti, ma il cibo che preferiva non era certo quello più adatto ad una corte: maccheroni, pizza, caponata e cipolla. Era talmente ghiotto di quest’ultima, che chi lo incontrava ne avvertiva l’aroma inconfondibile. Sembra che Ferdinando II amasse recarsi al mercato e nei luoghi dove si preparavano gli alimenti. Risapute erano le sue visite in incognito alla fiera natalizia di via Toledo, dove spariva fra le bancarelle alla ricerca di pupazzi di fichi secchi e agnellini di zucchero. C'è poi un famoso episodio su un'escursione fatta a Gragnano nel luglio del 1842. Scortato da quaranta cavalieri, accompagnato dalla regina, dalla numerosa prole e da tutta la corte, il re visitò gli opifici di paste lunghe. Ricevette in dono dai maccheronari cento tomoli di maccheroni e, per la squisitezza del prodotto, concesse a quei pastai l’alto privilegio di fornitori di corte.I maccheronari di Gragnano contraccambiarono riservando particolari cure alla produzione dei “maccheroni del Re”.Fu durante il regno dei Borbone che nacque la minestra maritata, piatto che sarebbe diventato unodei simboli del cibo partenopeo. Questa minestra, di derivazione spagnola, consisteva in un brodofatto con diverse qualità di carni e salumi, in cui erano lasciate insaporire tutte le verdure degli orti vesuviani.Uno dei prodotti più alti del ‘700, perfettamente coerente per forma e gusto a quel Rococò raffinato ed elegante che rese la città partenopea una delle capitali d’Europa fu la sfogliatella. L’origine della ricetta sembra essere Medioevale, ispirata a tradizioni arabe rielaborate dalle monache per onorare la mensa delle feste religiose. Poi nel ‘700, secondo una delle ipotesi, presso il monastero di S. Rosa d’Amalfi s’iniziò a confezionarla con continuità, simulando la forma di un cappuccio monacale, per offrirla in dono ai benefattori del convento il 30 agosto in occasione la festa della santa. Poi con il tempo la Sfogliatella subì modifiche sia nella forma, che negli ingredienti (canditi al posto della frutta secca). Notizie dettagliate si hanno nel 1818, con l’entrata in scena dell’oste Pasquale Pintauro, che venuto a conoscenza dell’esistenza di questo dolce, elaborò una sfogliatella da tenere in palmo di mano, per così dire “da passeggio”, guadagnandosi l’eterna gratitudine dei golos. Nel Mezzogiorno approdò anche lo struffolò e sembra che tutti i napoletani avessero una zia monaca a cui riferirsi per poter codificare al meglio il proprio struffolo. La storia gastronomica racconta che gli struffoli erano preparati nei conventi napoletani dove le suore, anche di diverso ordine monastico, li offrivano in dono alle famiglie nobili che si erano distinte per atti di carità. Solo dall‘800 s’incominciò a prendere in considerazione la cucina più povera. Esiste poi nella gastronomia napoletana una serie di piatti che, sempre dall’ottocento, fusero la tradizione della corte francese con gli ingredienti e le usanze tipicamente napoletane. Ne vennero fuori invenzioni molto elaborate e spettacolari, dove spiccavano timballi come i maccheroni al ragù, o il “sartù” a base di riso ripieno con fegatini di pollo, salsicce, polpettine di carne, ecc