Il Dolore Cronico e la Terapia del Dolore (Prima parte)
Il dolore è quella sensazione particolarmente spiacevole dovuta all’azione di un agente che compromette l’integrità somatica o funzionale di un organo. La capacità di sentire il dolore può essere aumentata (iperalgesia), ridotta (ipoalgesia), abolita (analgesia) per malattie organiche che ledono la recettività, la conduzione o anche l’elaborazione centrale del dolore oppure per particolari turbe psichiche (stati ansiosi, ecc.). Con la guarigione il dolore perde di intensità. Ma quando persiste diventa cronico e presenta caratteristiche tali da poter essere definito esso stesso una malattia, in grado di aggravare pesantemente le condizioni psico-fisiche del malato. Il dolore influenza lo svolgimento delle normali attività quotidiane. Agisce negativamente sull’appetito, sul sonno, sulla concentrazione, sull’umore, sull’autostima, sui rapporti con gli altri, e sulla possibilità di muoversi. Aggredisce l’intero quadro esistenziale del paziente. Esistono addirittura situazioni cliniche, prive di un chiaro quadro patologico, nelle quali il dolore è il sintomo dominante. L’elevata incidenza del dolore in molteplici patologie ha concorso a promuovere l’individuazione, nel malato, di un vero e proprio diritto soggettivo a non soffrire, soprattutto quando la sofferenza è inutile e suscettibile di essere efficacemente alleviata.
Attualmente, nel nostro ordinamento, l’affermazione del “diritto a non soffrire”, trova un generico supporto nelle norme della Costituzione che proclamano la tutela degli inviolabili diritti dell’uomo e che, più o meno, direttamente sanciscono il principio del rispetto per la dignità della persona. Non vi è nessun dubbio sulla necessità di configurare, come attentati a tale prerogativa, le ipotesi di mancata somministrazione di quei mezzi che sono oggi disponibili per alleviare le sofferenze a cui si accompagna, frequentemente, la malattia. Il sollievo dalla sofferenza, quindi, è compreso nel diritto alla salute, che va considerato diritto supremo ed inviolabile di libertà, il cui implicito riconoscimento è operato dall’art. 2 della Costituzione, giacché, come per ogni altro diritto esistenziale dell’uomo, tale riconoscimento risulta finalizzato alla libera e completa espansione della persona. Occorre evidenziare che, a tutt’oggi, del diritto di non soffrire e dell’aspirazione al mantenimento di livelli accettabili della qualità della vita durante la fase acuta di una malattia, si è parlato, in Italia, assai poco, nonostante l’ invecchiamento progressivo della popolazione e il moltiplicarsi di patologie legate all’età avanzata. Ciò comporta la frequente trasformazione, in situazioni croniche, di patologie che, nel passato, consumavano repentinamente chi ne era affetto. Risulta sempre più evidente, quindi, come la qualità della vita di coloro che soffrono sia un problema da risolvere a carico dell’intera comunità e non soltanto del personale ospedaliero o dei familiari dell’infermo.
Si tratta di questioni che dovrebbero implicare scelte di politica economico-sociale alquanto impegnative, ma purtroppo, almeno nel nostro ordinamento, così non è. Basti pensare che le uniche riforme legislative che hanno tentato di dare rilevanza a tale problematica sociale, Legge 8.02.2001 n. 12 e Legge 15.03.2010 n. 38, altro non hanno fatto che limitarsi ad annunciare e sollecitare finanziamenti in vista della costruzione di ospedali attrezzati per le cure palliative.
Pur essendo diventato il nostro Paese il primo in Europa a dotarsi di una normativa specifica per il trattamento della sofferenza inutile, da un punto di vista pratico l’Italia occupa l’ultimo posto nella classifica internazionale relativa ai farmaci idonei alla terapia del dolore. Se si consulta, infatti, il “Rapporto al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge n. 38 del 15 marzo 2010”, datato 2015, si potrà facilmente notare che in cinque anni di vigenza della legge, soltanto il 26% delle strutture sanitarie nazionali si sono uniformate al dettato normativo, residuando ben circa il 74% di criticità ancora da risolvere. Nonostante si sia intrapreso un cammino virtuoso su tali argomenti, appare evidente quanto ancora molto lunga sia la strada da percorrere per il pieno raggiungimento dell’obbiettivo stabilito dal legislatore.
Viene naturale chiedersi, allora, cosa accade davvero nella realtà giornaliera dei nostri ospedali, cosa accade ai pazienti, là dove un nosocomio, pubblico o privato che sia, non possieda attrezzature adeguate. Così come chiedersi di che tipo di tutela può avvalersi colui che soffre ingiustamente. Va detto che esistono numerosi scenari possibili. Si prenda il caso dei dolori oncologici, fronteggiabili solo con il progressivo aumento della dose giornaliera di morfina. Potrebbe il medico rifiutarsi di somministrare il farmaco? E in quali circostanze? Se l’ospedale in cui la persona è ricoverata non appare attrezzato per l‘erogazione di adeguate cure palliative, potrebbe disporsi, a spese dell’ospedale stesso, il ricovero presso un centro privato che appaia dotato delle tecnologie, dei know-how e delle strutture necessarie? Ancora. Sarebbe lecito per il medico di guardia rifiutare di recarsi a casa di un malato il quale accusasse fortissimi dolori e dal quale fosse stata richiesta, in via di urgenza, la somministrazione di farmaci lenitivi?
E’ da osservare che la risposta del diritto ad istanze sociali come la lotta al dolore cronico non può che non articolarsi su piani molteplici. E’ impensabile che nell’attesa di una riforma globale del sistema sanitario e del Welfare nel nostro Paese, non si possa reagire di fronte ad un illecito perpetrato ai danni di un malato, sia sul piano civile che penale o disciplinare. Ecco quindi che il danno esistenziale appare, in quest’ambito, figura particolarmente adatta ad accendere i riflettori sulle conseguenze dell’illecito perpetrato. Non vi è ombra di dubbio, infatti, che l’attenzione alla vita che peggiora debba essere ancora più accentuata e rigorosa che altrove, in particolar modo nell’ora del declino. I problemi per il diritto civile si presentano, allora, in termini abbastanza semplici. Ci si chiede se chi aveva il dovere di alleviare le sofferenze del malato non ha ottemperato, colposamente o volontariamente, potrà, senza alcun dubbio, essere chiamato a rispondere delle ripercussioni che quel comportamento ha arrecato al malato stesso e ai suoi familiari. Tale tesi è suffragata, inoltre, anche dal Consiglio d'Europa, che nel proclamare il diritto alla dignità del malato, rimarca la necessità che a quest’ultimo non venga a mancare la prestazione di congrue misure palliative. Il che significa che ogni singolo Stato dovrà garantire, quale vero e proprio diritto dell'individuo, la prestazione di cure del genere, assicurare a tutti i malati l'accesso a tali trattamenti, verificare che parenti ed amici siano incoraggiati ad accompagnare il malato e che risultino, a tal fine, adeguatamente supportati. In ipotesi di incapacità a fronteggiare la situazione del congiunto, prevedere forme alternative di sostegno professionale. Dovrà, inoltre, fornire efficace assistenza domiciliare, consentire la collaborazione tra i soggetti che sono impegnati nelle cure del malato. Dovrà favorire lo sviluppo di una forma di assistenza di qualità per i malati gravi, garantire la somministrazione di trattamenti palliativi, ove consentiti dal paziente, quand’anche idonei ad abbreviare la vita. Farà in modo che, almeno in ogni grande ospedale, venga predisposto un “Centro di Cure Palliative” che diventi parte integrante del programma di terapia e che sia incrementata la sensibilità dei cittadini sul tema della medicina palliativa, quale fondamentale obiettivo della medicina stessa.
(Continua nell’edizione di domani)